5 Febbraio 2006
V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)
Marco 1,29-39
In quel tempo,
29 Gesù, uscito dalla sinagoga, si recò in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni. 30 La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. 31 Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli.32
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. 33 Tutta la città era riunita davanti alla porta. 34 Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.35
Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. 36 Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce 37 e, trovatolo, gli dissero: "Tutti ti cercano!". 38 Egli disse loro: "Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!".39
E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.1) E, usciti dalla sinagoga, si recarono subito in casa di Simone: Gesù, con Giacomo e Giovanni, esce dal luogo di preghiera proprio del suo popolo e subito si reca in casa di Simone e di Andrea, un ambito di vita familiare, che poi si aprirà a tutti.
2) E subito gli parlarono di lei: gli parlano della suocera di Pietro, che è malata; in quel momento per loro è il fatto più urgente. È importante presentare a Gesù chi si ama ed è in difficoltà e con fiducia lasciare fare a Lui.
3) Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano: è un gesto forte, di resurrezione, è icona della Pasqua.
4) Ed essa si mise a servirli: questa espressione era già stata usata per gli angeli che servivano Gesù nel deserto; servire è un compito angelico, ma qui diventa anche una prerogativa femminile. Per San Gerolamo questo servizio è un "ministero"; usa infatti il termine "ministrabat" (in greco è il verbo del diaconato).
5) Venuta la sera, dopo il tramonto, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati: tutto si svolge in un grande silenzio, sia da parte dei portatori che dei portati; nessuno chiede niente, forse non sanno neppure cosa domandare; quello che conta è essere lì davanti alla porta dietro la quale è Gesù.
6) Guarì molti che erano afflitti da varie malattie: il verbo usato non è guarire, ma curare (il verbo della terapia). Il fatto che solo molti (non tutti) i malati siano guariti fa pensare che la cosa più importante non sia la guarigione, ma l'essere lì, vicino a Gesù per essere curati.
7) Al mattino si alzò che era ancora buio: è un mattino molto dentro la notte e c'è ancora il verbo della resurrezione (si alzò).
8) Si ritirò in un luogo deserto e là pregava: il motivo di questa fuga mattutina di Gesù è il suo bisogno di pregare, di stare un po' con suo Padre.
9) Si misero sulle sue tracce: qui è un verbo molto forte (nel NT si trova solo in questo episodio) che contiene l'idea del perseguitare; nell'AT indica una santa violenza, ad es. nel Salmo 22, 6: Felicità e grazia mi saranno compagne (mi inseguiranno) per tutti i giorni della mia vita.
10) Tutti ti cercano: Gesù cercava il Padre, ma tutti cercano Gesù, tutti hanno bisogno di Lui.
11) Andiamocene altrove, per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto (lett. uscito): Gesù implicitamente risponde che bisogna che si sappia dovunque che la salvezza è arrivata. La cosa urgente è che la Parola venga annunciata a tutti. Il Figlio è dovuto "uscire" dalla casa del Padre, forse con fatica, per entrare in contatto con la povertà dell'uomo.
12) E andò per tutta la Galilea: la predicazione di Gesù è volta dunque anche ai Gentili, che abitavano in Galilea.
13) Predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni: tutto si concentra in queste due azioni, la predicazione della Parola e la cacciata dei demoni.
Giobbe 7,1-4.6-7
Giobbe parlò e disse: | "1 Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra | e i suoi giorni non sono come quelli d’un mercenario? | 2 Come lo schiavo sospira l’ombra | e come il mercenario aspetta il suo salario, | 3 così a me son toccati mesi d’illusione | e notti di dolore mi sono state assegnate. | 4 Se mi corico dico: "Quando mi alzerò? ". | Si allungano le ombre e sono stanco di rigirarmi fino all’alba. | 6 I miei giorni sono stati più veloci d’una spola, | sono finiti senza speranza. | 7 Ricordati che un soffio è la mia vita: | il mio occhio non rivedrà più il bene".
1) Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra? Il termine ebraico reso con duro lavoro può anche essere tradotto servizio militare, esercito (è la scelta che fa S. Girolamo, che traduce militia). Questa parola, usata a volte per descrivere una vita dura, al servizio di altri (cfr. Is 40,2: Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù ), altrove indica gli astri del cielo (cfr. Is 40,26: Egli fa uscire in numero preciso il loro esercito e li chiama tutti per nome) e le schiere degli angeli (cfr. Sal 148, 2: Lodatelo, voi tutti suoi angeli, lodatelo, voi tutte sue schiere) ed evoca la quieta obbedienza del creato al suo Creatore (che spesso è chiamato appunto Dio degli eserciti; cfr. Am 4, 1: Signore, Dio degli eserciti, è il suo nome).
2) Come lo schiavo… come il mercenario: all’immagine del servizio militare sono accostate le figure dello schiavo e del mercenario, che consumano la loro vita nel servizio. La versione dei LXX usa, per indicare lo schiavo, un termine molto bello, che potrebbe significare anche colui che si prende cura, aiutante, assistente, compagno; per indicare il salario del mercenario si serve dello stesso termine usato in Genesi per la ricompensa promessa ad Abramo (cfr. Gen 15,1: Non temere, Abram. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande).
3) Sono stanco di rigirarmi fino all’alba (LXX: sono pieno di dolori dalla sera fino alla mattina): il tempo dalla sera al mattino che, nel disegno del Signore, segna il compimento di ogni giornata (cfr. Gen 1, 5.8.13.19.23.31: E fu sera e fu mattina…) è per Giobbe tempo di dolore e affanno.
4) I miei giorni… sono finiti senza speranza: la versione dei LXX è forse ancora più amara: la mia vita… si è perduta in una vuota speranza. La speranza non è assente, ma è vuota e non può salvare. La versione greca riprende qui l’aggettivo vuoto che era già stato usato (in tutte e tre le versioni) al v.3 (mesi di illusione: lett. mesi vuoti), ad indicare l’apparente inutilità dello scorrere del tempo.
5) Ricordati…: quasi all’improvviso il lamento di Giobbe dalla solitudine si apre ad un Tu. Il grido di dolore diventa preghiera.
1 Corinzi 9,16-19.22-23
Fratelli, 16 non è per me un vanto predicare il vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il vangelo! 17 Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18 Quale è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo.
19
Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. 22 Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno. 23 Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro.1) Non è per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere (lett. necessità) per me: guai a me se non predicassi il vangelo!: la predicazione è per Paolo un dovere, perché deriva da un incarico affidatogli dal Signore, ma è soprattutto una necessità interiore, perché Paolo, come i profeti e come tutti coloro che hanno conosciuto il Signore, deve comunicare ciò che ha riempito il suo cuore: Non possiamo tacere quello che abbiamo visto e udito (At 4,20); Mi dicevo:… Non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente (Ger 20,9).
2) Se lo faccio di mia iniziativa ho il diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa è un incarico(lett. economia) che mi è stato affidato: l’apostolo afferma di non potere esigere una ricompensa, perché il suo compito non è una sua libera scelta, ma è la sua obbedienza a Dio. Rispetto al Signore la sua condizione è simile a quella di un servo, che non può avanzare delle pretese per l’opera da lui dovuta al suo padrone: Siamo poveri servi, abbiamo fatto quello che dovevamo fare (Lc 17,10).
3) Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di predicare gratuitamente il vangelo senza usare del diritto conferitomi dal vangelo: Paolo, facendosi servo del vangelo, ha voluto rinunziare ad ogni ricompensa e ad ogni diritto, anche lecito. La ricompensa che egli riceve dal Signore è quella di potere annunziare gratuitamente il vangelo e così, proprio per essere divenuto radicalmente servo della Parola, egli diviene anche radicalmente libero, in quanto la sua opera di evangelizzazione è un puro e dunque gratuito atto d’amore.
4) Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: per l’Apostolo la rinunzia ad ogni diritto è fatta per l’edificazione dei fratelli; infatti, Voi, fratelli, siete chiamati a libertà, purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13).
5) Mi sono fatto debole con i deboli: la predicazione del vangelo esige una partecipazione alla compassione del Signore nei confronti della povertà della condizione umana. Oltre che il contenuto del vangelo è essenziale il modo con cui viene portato: Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema? (2Cor 11,29).
6) Tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe con loro: chi annunzia il Vangelo è il primo ad essere coinvolto e raggiunto dall’annunzio di cui è portatore. La predicazione esige che l’apostolo sia reso partecipe della pasqua del Signore: Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto (Gv 12,24).
SPIGOLATURE ANTROPOLOGICHE
La narrazione evangelica di questa domenica, proseguendo il vangelo della domenica precedente, ci fa partecipare in modo vivo ad un’intera giornata di Gesù (un sabato a Cafarnao). Avvertiamo subito che le persone inferme nel cuore e nello spirito da lui incontrate e curate ci rappresentano e che la liberazione dal loro male ci riguarda. Questo sabato è dunque "per noi" e chiede di essere accolto come la sintesi e la rivelazione del "giorno nuovo" in cui la storia è già entrata. Questo rimane vero anche se ci sentissimo soverchiati dalle prove della vita in quanto non ci troviamo davanti ad un progetto, ad un’utopia, ad un arduo traguardo etico proponibile solo a pochi, ma siamo introdotti in un cammino già aperto da qualcuno e perciò percorribile da tutti, che non ha bisogno del dispiego di grandi strumenti, non richiede nessuna iniziazione e nessuna condizione previa, se non quella di fidarsi della relazione d’amore. Anzi più radicalmente si potrebbe dire che l’unica condizione di ingresso è quella di confidare comunque nella relazione, anche se l’amore rimane nascosto in una situazione desolata, anche se gli strumenti piccoli di cui la relazione può disporre sembrano impari di fronte agli assalti del male.
Si tratta tuttavia di una condizione esigente che esclude ogni altra prospettiva, per cui ogni uscita dalla relazione, anche "minima", genera inimicizia e male. La positività assoluta della relazione è il vero miracolo, ripetibile anche da noi, che segna tutta la giornata di Gesù. La molteplicità degli incontri che avvengono, la diversità delle persone coinvolte, il convergere al tramonto dei malati e di tutta la città attorno alla casa di Pietro, dove è presente Gesù, indicano che non vi è condizione umana personale o collettiva che sia pregiudizialmente esclusa dal bene e consegnata alla rassegnazione.
Le due "icone" a cui tutte le condizioni "perdute" possono essere ricondotte sono l’indemoniato della sinagoga (già incontrato la domenica precedente) e la suocera di Pietro a letto febbricitante. La prima figura rappresenta la violenza che, non solo rifiuta la relazione, ma rischia di generare attorno a sé un altro rifiuto maggiore, quando la persona violenta è vista come un colpevole da punire e non come un malato da guarire. La seconda figura, quella della suocera, rappresenta la passività mortale generata da un male non vincibile, che sembra negare ogni possibilità di relazione e di discorso. Gesù, senza dire nulla, la prende per mano e la solleva con un gesto che innalza la donna ed abbassa lui che, toccandola, diventa come partecipe della sua malattia. La relazione d’amore esige infatti un nostro perderci in essa e per essa. Il servizio che la donna rende a Gesù ed ai suoi amici è il suo ringraziamento per questa diaconia sponsale di cui le è stato fatto dono.
Alla fine del giorno si ha poi un convergere attorno a Gesù di un’ intera città di malati, convergenza inevitabile perché la relazione d’amore ha un valore universale ed esercita una forza di attrazione in grado di convocare nella pace tutti i popoli, nella loro infine raggiunta consapevolezza della comune malattia e del comune bisogno di aiuto. La storia del resto può insegnare come questo convergere sia esigente e delicato e come ogni altro modo di riunirsi della città e dei popoli generi violenze spaventose. Tuttavia la luce di questo giorno, la forza della relazione non potrebbe durare ed essere vera senza un apice che il vangelo chiama preghiera. Vi è un eccesso di male, vi è la dispersione di tanti non ancora raggiunti dal bene, per cui la relazione deve farsi nomade, al di là della sua stessa capacità fisica di movimento; di più vi è una vocazione nuziale della relazione da cui dipende la sua fecondità. Senza questo apice di cui ognuno deve trovare il segreto tutto il resto non si darebbe.
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