27 Novembre 2005

I DOMENICA DI AVVENTO (ANNO B)

 

Marco 13,33-37

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 33 "State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. 34 È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. 35 Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, 36 perché non giunga all’improvviso, trovandovi addormentati. 37 Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!".

1) È come uno che è partito per un viaggio, dopo aver lasciato la propria casa: come nel brano parallelo di Mt 24,45ss. (Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così), questo versetto fa pensare al tempo in cui il Signore lascia la sua casa "terrena", la Chiesa che si è acquistata con la sua morte e resurrezione, per ritornare al Padre. Il protrarsi dell’attesa implica per i servi la continua vigilanza sulla casa. Allo stesso modo Paolo dice a Timoteo: Se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente (1Tm 3,15).

2) Dato il potere ai servi: il termine usato per indicare il potere si trova anche in Gv 17,2: Poiché tu (Padre) gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli (il Figlio) dia la vita eterna a tutti quelli che gli hai dato. Si tratta dunque di una missione ricevuta (cfr. Mt 10,1: chiamati a sé i dodici diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e 28,18: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra; andate dunque, e ammaestrate tutte le nazioni); è anche il potere di rimettere i peccati (cfr. Gv 20,23: a chi rimetterete i peccati saranno rimessi).

3) a ciascuno il suo compito: il compito è letteralmente l’opera che ciascuno riceve da svolgere; già nella parabola dei talenti ai servi accadeva di operare nei talenti ricevuti, i carismi di cui parla Paolo (cfr 1Cor 12,4: vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito).

4) e ha ordinato al portiere di vigilare: al portiere è stato dato un compito specifico, vigilare, che subito dopo è esteso a tutti i discepoli (vigilate, dunque… Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!); in Gv 10,3 al portinaio dell’ovile è attribuito il compito di aprire al pastore delle pecore, il solo che entra per la porta.

 

Isaia 63,16-17.19; 64,1-7

6316 Tu, Signore, tu sei nostro padre, | da sempre ti chiami nostro redentore. | 17 Perché, Signore, | ci lasci vagare lontano dalle tue vie | e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? | Ritorna per amore dei tuoi servi, | per amore delle tribù, tua eredità.

19 Se tu squarciassi i cieli e scendessi! | Davanti a te sussulterebbero i monti. | 641 Davanti a te tremavano i popoli, | 2 quando tu compivi cose terribili che non attendevamo, | 3 di cui non si udì parlare da tempi lontani. | Orecchio non ha sentito, | occhio non ha visto | che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto | per chi confida in lui. | 4 Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia | e si ricordano delle tue vie. | Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato | contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. | 5 Siamo divenuti tutti come una cosa impura | e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia | tutti siamo avvizziti come foglie, | le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento. | 6 Nessuno invocava il tuo nome, | nessuno si riscuoteva per stringersi a te; | perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, | ci hai messo in balìa della nostra iniquità.

7 Ma, Signore, tu sei nostro padre; | noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, | tutti noi siamo opera delle tue mani.

1) Tu sei nostro Padre: l’uso del titolo "Padre" diventato il più familiare a noi, discepoli del Figlio, è in realtà raro nell’A.T., ed è tanto più notevole per il fatto che in un unico versetto viene ripetuto due volte, in antitesi con la paternità dei patriarchi, che non sembrano più curarsi delle promesse di cui furono depositari. Ogni paternità umana, anche la più santa, è solo un pallido segno del legame originale che esiste tra il Signore e le sue creature.

2) Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie: senza nulla togliere alla responsabilità umana, che viene esplicitata pochi versetti dopo (Tu sei adirato con noi, perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli Is 64,4), per la fede ebraica ogni avvenimento della storia è il realizzarsi dell’opera e della volontà di Dio; per cui non sono mai le potenze negative che guidano la nostra vita.

3) Ritorna, per amore dei tuoi servi: la supplica a Dio è qui richiesta accorata di un suo muoversi verso di noi, che pure ci siamo allontanati da Lui (le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento Is 64,5).

4) Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti: la venuta di Dio tra gli uomini è sempre accompagnata nelle teofanie dell’A.T. da segni cosmici e prodigiosi (cfr. Es 19 e 20, Gdc 5,4-9, Sal 18,8-10). Tracce di essi si ritrovano anche nelle narrazioni del N.T. (cfr. ad es. in Mt 27,51-54 il terremoto che segue alla morte del Signore o anche la stella che in Mt 2 accompagna il cammino dei magi). Eppure, nel suo concreto realizzarsi, il mistero dell’incarnazione del Cristo, che qui evidentemente è profetizzato, sceglierà piuttosto le vie della piccolezza e del nascondimento.

5) Orecchio non ha sentito, occhio non ha visto: l’esperienza di Israele è unica, non confrontabile con quella degli altri popoli, perché Israele ha udito direttamente la voce di Dio, ha visto i suoi prodigi (cfr Dt 4,7: Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé…).

6) Signore, tu sei nostro padre: il riconoscimento delle colpe, del proprio stato di impurità (come panno immondo), di infecondità (avvizziti come foglie), di lontananza (nessuno invocava il tuo nome), della dichiarazione sincera della propria miseria, diventano supplica fiduciosa e dunque preghiera, affinché Dio passi oltre i peccati del suo popolo.

 

1 Corinzi 1,3-9

3 Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

4 Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, 5 perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza. 6 La testimonianza di Cristo si è infatti stabilita tra voi così saldamente, 7 che nessun dono di grazia più vi manca, mentre aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. 8 Egli vi confermerà sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo: 9 fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!

1) Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo: con questo saluto e augurio l’apostolo inizia quasi sempre tutte le sue lettere. Grazia e pace sono i doni della benevolenza di Dio, elargiti in Cristo Gesù ai fedeli di Corinto, ai quali viene ricordato: siete stati arricchiti in Lui di ogni cosa, di ogni parola e scienza. La pace è effetto della piena riconciliazione dell’uomo con Dio attraverso Gesù, dono del Risorto: Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: pace a voi (Gv 20,19); è l’abbattimento di ogni inimicizia dell’uomo con Dio e con gli altri uomini: Egli è la nostra pace… abbattendo il muro di separazione che era frammezzo… per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo… e per riconciliare tutti e due con Dio… per mezzo della croce (Ef 2,14 ss).

2) La testimonianza di Cristo si è infatti stabilita tra voi: la testimonianza è intesa come quella che ha per oggetto Cristo nella predicazione del vangelo, che è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rom 1,16). Attraverso questa testimonianza Cristo stesso è presente nel cuore del credente: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20).

3) Nessun dono di grazia più vi manca, essendo stati arricchiti, nel Signore Gesù, di tutti i doni: cfr. Gv 1,16 dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.

4) Mentre aspettate la manifestazione del Signore: la vita del discepolo è tutta riempita dall’attesa della venuta del Signore, per entrare nella gloria dei figli di Dio (Rom 8,19), attesa fondata unicamente sulla fedeltà di Dio: Egli vi confermerà sino alla fine irreprensibili (v.8).

 

SPIGOLATURE ANTROPOLOGICHE

L’avvertimento ed il comando di vegliare ci fanno uscire tutti dal "fare" per proiettarci nel "vedere", proprio degli "uomini della soglia", i "portieri", che guardano con attenzione fuori della casa vegliando e vivendo nell’attesa. Rimanere in questa tensione dell’essere non porta a disprezzare la regalità di cui ciascuno è investito in virtù dell’opera e della potenza a lui affidate, ma permette di custodire questa regalità, che è salvata solo in quanto è dedicata all’incontro con qualcuno ed è sottratta così ad una sua altrimenti troppo chiusa perfezione, che potrebbe essere ignara del travaglio della storia.

Infatti l’opera della vita non basta a se stessa: perché sia feconda occorre che chi la compie esca radicalmente da sé per accettare il rischio della relazione, fino ad esporsi a quella singolare relazione incompiuta che è l’attesa dell’altro. Non si tratta di una relazione evanescente perché si colloca nello spazio e nel tempo, non è una relazione senza volto, perché è un volto ad essere atteso, tuttavia è una relazione fragilissima in quanto si trova esposta all’incertezza dei "tempi" (non si sa quando avverrà l’incontro, se la sera, alla mezzanotte, al canto del gallo od al mattino) e soprattutto all’incertezza del "tempo", di un tempo che si vorrebbe fosse solo di pienezza e che, invece, è carico delle ombre, delle ambiguità e dei travagli della storia dei singoli e dei popoli. Infatti il padrone, che assume il volto del fratello, dell’amico, del figlio, dell’amore perduto, è partito per un viaggio che lo sottrae alla prossimità e tuttavia, pur nella lontananza, continua ad esercitare la sua signoria in quanto è affidato alla responsabilità ed all’affetto di chi lo attende ed aspetta la sua manifestazione, l’attimo del ritorno in cui improvvisamente apparirà la sua bellezza nascosta.

È impossibile ai forti, nonostante le apparenze, rimanere in questa vigilanza perchè non si tratta di superare con la forza l’inevitabile stanchezza prodotta dall’aspettare, ma di essere discepoli dell’attesa, rimanendo così dentro una situazione di debolezza e traendo la forza dalla propria debolezza. Anzi ciò che potremmo pensare come una nostra giustizia su cui appoggiarci, andrebbe deposto come un panno immondo nella misura in cui ci distogliesse dall’unico vegliare possibile nella storia, che è quello dei piccoli e dei poveri. Infatti quello degli umili è un vegliare nello stesso tempo appassionato e sobrio, alieno da ogni ebbrezza, forte e debole insieme, perché non consiste nel non addormentarsi, ma nell’essere custoditi nell’attesa (sia che si dorma, sia che si vegli) da un pianto che è tanto potente nella sua debolezza da squarciare i cieli e da scoprire vie di comunione e solidarietà anche nel deserto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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