Leggo su “Avvenire” del 22 marzo: “Mancano diecimila posti, il carcere resta un’emergenza”.

È un articolo interessante che mostra molte delle gravi povertà delle nostre carceri. Però devo confessare che quelle prime parole del titolo, “mancano dieci mila posti…”, mi ha sconcertato. Se è per dire che l’affollamento attuale è disumano, queste parole sono doverose e accettabili, ma dobbiamo ormai guardare avanti, verso una prospettiva che tenda alla riduzione dei luoghi e degli ambienti di detenzione che portano il carcere ad essere il luogo più sbagliato che la nazione dispone, e per promuovere un cammino di recupero verso la civiltà e la convivenza pacifica e feconda delle persone. La nostra situazione carceraria è sbagliata e ingiusta nei confronti dello stesso dettato costituzionale che considerare la carcerazione come essenziale opportunità per restituire alle persone quello che nel dramma dell’esistenza hanno rigettato o non hanno mai ricevuto, e per favorire il loro reingresso nella condizione di vita di tutti gli altri. Se l’attuale esorbitante numero dei detenuti porta ad un’ingiusta e dolorosa e talvolta insopportabile situazione, dobbiamo considerare ben più grave la mancanza quasi assoluta di risorse interne per un cammino di recupero delle persone detenute. C’è per fortuna molto spesso la presenza di un volontariato che porta nel carcere il segno di una alternativa e di una speranza, ma in evidente sproporzione con quello che dovrebbe essere un progetto di riabilitazione profonda delle persone. Così si verifica che il “dopo-carcere” è molte volte addirittura peggio del carcere: mancanza di relazioni ormai perdute, stanchezza esistenziale spesso molto profonda e povertà estrema di risorse per ricominciare una vita nuova. Non dappertutto è come da noi. Sui nostri giornali sono apparse anche notizie di paesi europei nei quali la realtà carceraria è in costante crescente discesa. Anche in Italia questo si è verificato per le detenzioni legate al mondo della droga: qui il carcere viene sostituito con percorsi di recupero in comunità terapeutiche. Tale recupero del tutto alternativo alla detenzione è possibile per molte devianze e per molte colpe! Mentre quindi in altri paesi gli edifici carcerari vengono chiusi o riutilizzati per ben altri scopi, noi dobbiamo costruire altre carceri!
Lasciatemi infine ricordare l’insegnamento insistente di Papa Francesco. Egli molte volte ha citato l’episodio narrato dall’Evangelista Giovanni, di una donna sorpresa in flagrante adulterio, e, secondo la legge mosaica, destinata alla lapidazione. Coloro che l’hanno condotta da Gesù per creargli una grana vengono congedati da Lui che pone come condizione per l’esecuzione della pena che essa venga eseguita da chi è senza peccato. Quando restano soli, Gesù le chiede se qualcuno l’ha condannata, e lei gli risponde che nessuno l’ha fatto. Il Signore le dice che anche Lui non la condanna e le chiede di iniziare una vita nuova e diversa. Noi pensiamo sempre che il perdono venga dopo la condanna e la pena. Per il Vangelo il perdono precede e annulla la condanna e la pena. La reinterpretazione necessaria è quella di offrire al colpevole condannato un cammino nuovo di liberazione e di crescita. Buona Domenica a tutti. Giovanni della Dozza.

Nota: Articolo pubblicato su “Il resto del Carlino – Bologna” di domenica 26 Marzo 2017 nella rubrica “Cose di Questo mondo”.