9 Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10 Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11 Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12 Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13 Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori».

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‘Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?’. La domanda dei farisei ai discepoli mi è sembrata piuttosto centrale.
Come mai Gesù, il nostro maestro, mangia insieme ai pubblicani, ai peccatori?
I discepoli pare non sappiano rispondere, anche negli altri paralleli. Forse è un discorso difficile da comprendere anche per noi oggi, per la Chiesa? E’ più facile fare un pò i farisei e tenere distante, separato, qualcuno dalla tavola?
Gesù leva i discepoli dall’impaccio e rivela che proprio i malati e i peccatori hanno bisogno di Lui. Che rovesciamento!
E che splendido banchetto a cui, con le nostre povertà, siamo invitati..
Il brano della chiamata di Matteo Levi descritta da lui stesso nel suo vangelo si articola in tre parti. Nel v. 9 Gesù chiama il pubblicano, identificato con Matteo; nel v. 10 Gesù, con i suoi discepoli, entra in casa sua e si fa commensale con lui e con altri suoi colleghi; nei vv. 11-13, all’obiezione dei farisei contro i discepoli, Gesù risponde dichiarando la sua missione di salvatore, che risponde al suo nome.
«Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori!». Il paralitico che cammina è segno del grande miracolo: il peccatore è chiamato a seguire Gesù. Rimesso in piedi dal perdono, può entrare in casa sua e accogliere chi lo ha accolto, insieme a tanti fratelli, come lui bisognosi di perdono e accoglienza.
Continua il tema iniziato nel brano precedente: la legge denuncia il peccato e punisce il peccatore, mentre il Signore rimette il peccato e accoglie il peccatore. Dio non è legge, ma amore; non e sanzione e punizione, ma perdono e medicina. La nostra miseria è il nostro titolo ad accogliere lui, misericordia senza limiti.
Matteo era come il paralitico, incapace di camminare, Gesù lo chiama e per il pubblicano vi è come una resurrezione. Il Signore chiama a livello umano la persona meno adatta, nel momento meno adatto (sta compiendo il lavoro che è fonte di peccato). Vi è la possibilità per tutti di cambiare vita, Gesù è venuto a mostrarla. Matteo non fu chiamato perché convertito, ma si convertì perché chiamato. Il Signore è nostro medico proprio con il suo essere con noi peccatori: la sua vicinanza è la medicina.
Matteo è chiamato ad alzarsi per mettersi a sedere di nuovo a casa con molti peccatori. Gesù si fa nostro fratello perché noi ci facciamo fratelli dei peccatori, ci accoglie ci fa sedere nella sua tavola affinché anche noi accogliamo i fratelli.
La sedia che lascia Matteo era solitaria, Gesù lo invita a sedersi a tavola con Lui e i peccatori.
Emerge un problema costante: i «giusti», come il fratello maggiore di Lc 15, stentano ad accettare i peccatori. Lo fanno con fatica, e solo se questi si convertono e si sforzano di diventare bravi. Gesù invece accetta quelli non ancora convertiti. Non perdona il peccatore perché si converte; lo perdona prima, perché possa convertirsi.
Se escludiamo dal nostro banchetto il peccatore, escludiamo il Signore stesso, che banchetta con i peccatori.
Gesù chiama tutti, ed è commensale con i peccatori non solo convertiti, come Matteo, ma anche con gli altri. Da notare che Gesù difende Matteo e i peccatori dalle accuse dei ben pensanti.
La Chiesa non è fatta di giusti, ma di peccatori perdonati, sempre bisognosi di ricevere e dare perdono. I cristiani non vivono della propria giustizia, ma della sua «grazia»: graziati dal Signore, usano grazia gli uni verso gli altri (Ef 4,32).
Gesù si richiama alla predicazione dei profeti, in particolare Osea “Misericordia voglio e non sacrificio” (Os 6,6). Non i sacrifici e le espiazioni, ma la scoperta del suo amore ci guarisce. La missione di Gesù non è verso i giusti che in realtà non esistono (nessun uomo è giusto Sal 12,2; Rom 3,23), tranne Lui che si perde per tutti noi ingiusti mangiando, vivendo e camminando con noi.
Rialzati dal banco del peccato e di morte, per condividere il banchetto di vita col Signore e i fratelli: è quello che accade ogni domenica nell’Eucaristia dove il Signore ci chiama, ci nutre e ci difende.
Andando via di là, Gesù vide un uomo…Il Signore si allontana dal luogo della guarigione del paralitico e vede un uomo seduto al banco delle imposte, vede cioè l’umanità intera prigioniera della tenebra del peccato e della morte, schiava di quell’Egitto da cui solo il Salvatore può liberarla per farla sorgere ad una creazione nuova. Il verbo dell’alzarsi è lo stesso della resurrezione.
Dopo la prontezza nel seguire Gesù, prontezza che ricorda quella di Zaccheo , anch’egli pubblicano,( Lc 19), la casa diventa il luogo della festa e del banchetto, sotto gli occhi critici dei farisei e diventa occasione di insegnamento e di esortazione. Essi rappresentano la Legge che imputa il peccato ma non lo sana e separa il ‘giusto’ dai peccatori mentre la grazia unifica intorno alla mensa e alla persona di Gesù tutti i bisognosi chiamati alla conversione. San Paolo dice di essersi fatto tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno ( 1Co 9,22)
Gesù sente l’interrogazione dei farisei e li esorta ad imparare dalle stesse Scritture quale sia il sacrificio gradito al Signore. Dice letteralmente:’ Andando imparate ‘ : non è stando fermi nelle proprie certezze e nei propri giudizi che si impara la misericordia ma facendosi compagni di viaggio dei fratelli , vedendo le loro miserie come le nostre e piegandosi su di esse come il buon samaritano sulle ferite dell’uomo caduto.
Questo ci ricorda come nella parte finale del rito della Professione si dica che è privilegio essere , per amore,chiamati a mensa con i peccatori e gli increduli per farsi loro fratelli e sentirsi, insieme con loro, gratuitamente giustificati e salvati