3,1 È degno di fede quanto vi dico: se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro. 2 Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, 3 non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. 4 Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, 5 perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio? 6 Inoltre non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo. 7 È necessario che egli goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo.
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Ci sono due elementi del testo che oggi celebriamo, che mi sembrano di rilievo. Entrambi sembrano tendere ad una certa “demitizzazione” del ruolo episcopale, o meglio, ministeriale in genere, dato che il volto strutturale della Chiesa di quei tempi non è quello dei nostri giorni. Questi “vescovi” erano forse come i preti di oggi.
Il ver.1 parla di questo ministero come di “un’opera”, di un’opera buona, là dove la versione italiana tende ad adornare l’espressione dicendo “nobile lavoro”. Mi piace questa “opera buona” che non porta traccia di investiture impegnative e che viene resa desiderabile a chiunque ami un simile impegno. Insomma una faccenda semplice, che sembra partire più da disposizioni personali che da obbedienze sacre.
L’altro elemento che mi colpisce è il rapporto tra impegno ecclesiale e impegno famigliare segnalato ai vers.4-5. Non solo perchè manca il legame tra celibato e ministero, ma anche per come pone la condizione sponsale-famigliare alla base dei criteri di idoneità del vescovo. Per essere un buon vescovo bisogna che sia prima di tutto un buon padre dei propri figli. La vita famigliare viene considerata un criterio essenziale di giudizio sull’opportunità che uno tiri (questo è il significato letterale e sbarazzino del termine reso con “aspira” al ver.1) a questa opera buona.
In ogni modo si tratta evidentemente di una faccenda delicata, e per questo piuttosto interessante per il diavolo. Questo diavolo potrebbe avere facile accesso nella persona e nel comportamento di un enfant prodige, un neofita di vaglia. Il rischio è la superbia. Così il ver.6. E lo stesso diavolo potrebbe approfittare di relazioni non buone e non facili con il mondo che circola intorno alla comunità ecclesiale. Potrebbe essere rischioso esporsi all’oltraggio- così parrebbe di dover interpretare il termine “discredito” del ver.7 – di gente estranea e aggressiva, come dovette sopportare Gesù nella Passione, senza avere la forza morale di resistere e quindi con il rischio di esporsi a reazioni cattive.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Riguardo all’inizio del testo “la parola è degna di fede”, una nota dice che è una formula atta a sottolineare il carattere solenne di una dichiarazione. Però si potrebbe intendere anche come il fondamento di quello che viene poi espresso: è la fedeltà della parola che sostiene ogni cosa, compreso l’ordinamento della chiesa, e qui in specifico quello che è definito l’episcopato. Nei primi capitoli questa “parola fedele” è stata descritta come parola di salvezza: “Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori”; a cui è seguita l’affermazione che “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati”.
Dal parallelo del v.5 si può dedurre che anche la chiesa è una realtà familiare; e in tal senso il vescovo più che per mansioni o titoli si caratterizza come un padre. Nella nostra regola nel capitolo dell’obbedienza si parla della comunità come famiglia sovrannaturale. La funzione di presidenza si allarga in qualche modo a tutti i credenti, chiamati a presiedere nelle opere buone (Tito,3,5)
Si può notare che il parallelo del v.5 non è assoluto: si parla della “propria” famiglia e della chiesa “di Dio”. In questo senso si può vedere la parte del vescovo come il cercare di aderire alla paternità di Dio e favorirla. “L’aver cura” è lo stesso verbo che si ritrova la cap.10 di Luca a proposito del samaritano che, a differenza del sacerdote e del levita, si prende cura dell’uomo assalito dai briganti e quindi chiede all’albergatore di prendersi cura di lui.
All’ultimo versetto si dà importanza anche alla buona testimonianza che viene da quelli di fuori. Anche i confini, il di dentro e il di fuori, sono pur sempre relativi e sempre subordinati a questa parola di salvezza per tutti gli uomini, e che sempre quindi presuppone, in qualche modo, un coinvolgimento di tutti.