22 Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. 23 Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24 Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25 Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26 Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. 27 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28 Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29 Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30 Io e il Padre siamo una cosa sola».
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Mi pare di cogliere, dalla preghiera di oggi, in queste parole del Vangelo, l’immensa conferma del dono di Dio nei nostri confronti. Tremo mentre dico questo! Come posso pretendere di essere tra le “pecore” nominate al ver.26 e nei versetti seguenti? Credo di poterlo dire perchè l’insegnamento di Gesù non lascia spazio a nessun nostro merito nè ad alcuna nostra partecipazione al mistero della fede. Allora, è proprio in questo nulla da parte mia che mi sembra di dover riconoscere il dono del Signore. Al punto che se non lo riconoscessi mi sembrerebbe di peccare di ingratitudine e in certo senso di orgoglio. Così come sono, e malgrado tutto quello che sono, il Signore mi ha riempito del suo dono. Non lo devo dunque riconoscere e affermare? Tremando, credo di dover confessare la mia fede davanti a queste parole: con emozione tremante, ma anche con tenera gratitudine.
Conferma di questo mi viene già a partire dalla domanda che con un senso quasi di impazienza gli rivolgono i giudei al ver.24. Io non sarei portato a fargli questa domanda, ma piuttosto, davanti a Lui, mi sento più semplicemente nella situazione dei discepoli, quale ricordo ad esempio in Gv.21,12: “E nessuno dei discepoli osava domandargli: “Chi sei?” perchè sapevano bene che era il Signore”. Sì, mi pare di trovarmi in questa situazione e in questo stato d’animo.
In questo orizzonte mi pare di capire il senso delle parole del ver.26: “..voi non credete perchè non fate parte delle mie pecore”. Con nessuna possibilità di vanto, mi sembrerebbe grave peccato da parte mia dichiararmi “non parte” delle pecore. Come e quante volte il Signore mi cerca e mi conduce! Non sarei qui in questo momento se non fosse così! Per cui, sia pure malamente e tra molti peccati, non posso non riconoscermi anche nel ver.27: il fatto di seguirlo non è nessun merito nostro, ma risale sempre al mistero del dono di Dio.
Se quello che vi comunico non è sacrilego, come possiamo sentire non nostre le parole del ver.28: “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno…”? Mi sembra che l’importante sia custodire tutto questo con trepidazione e con l’assoluta certezza che non viene da noi e non è opera nostra. Siamo dunque tra coloro di cui Gesù dice: “Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Come posso dubitare di questo? Certo, continuamente mi sento esposto alla mia fragilità di ogni tipo. Ma questo non mi consente di dedurne la negazione della potenza della misericordia di Dio. E questo fino all’ultima parola che oggi ascoltiamo dal Signore, parola che è il segreto di tutto!: “Io e il Padre siamo una cosa sola”.
Chiedo scusa per avervi trascinato in pensierini senza importanza, che a qualcuno parranno anche vanitosi. Ma oggi va così: ho un grande desiderio e un grande bisogno di dire al Signore quanto sono contento di Lui e della sua opera tra noi. Tra l’altro oggi è il decimo anniversario del ministero di Francesco a Sammartini. I Sammartinesi sono ben consapevoli del regalo che Dio ha fatto loro. Non è opera e merito di Francesco, ma è dono di Dio.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Gesù richiama i suoi interlocutori, i capi dei Giudei, a riconosce chi lui sia, accogliendo con fede la testimonianza delle sue opere buone. Non dà a loro una risposta chiara ed esplicita, infatti, ma li rimanda alle opere che hanno visto o di cui hanno udito, e alla necessità di accoglierle con fede. Nei vv. finali si vede che la potenza di Gesù non è la sua potenza personale e privata, ma viene da Dio, e dalla comunione d’amore che lega Gesù al Padre. Diversamente da Adamo, che ha cercato di rapinare il dono di Dio, per essere lui stesso “dio” da solo, Gesù non vuole rapinare Gio, ma essere in comunione perfetta con Lui. Come leggiamo nella lettera ai Filippesi: “Cristo Gesù non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la forma di schiavo”. Parole che ci conducono al Vangelo di domenica prossima, dove il Signore mostra ai suoi la via della vera grandezza. LA domanda posta dai capi Giudei contiene in sè contemporaneamente sia l’intento di cogliere in fallo Gesù in modo insidioso, e forse anche la ricerca di conoscere meglio la realtà della sua persona. Colpisce nella loro domanda, una certa enfasi posta in quel “noi”: “Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente!”. Quasi a dire: “Non dirlo solo ad altri, gente irrilevante, di cui noi non possiamo accettare la testimonianza, ma a noi, che siamo i capi del popolo!”. A questa pretesa Gesù non accondiscende; e se è vero che alla samaritana e al cieco nato Gesù ha detto esplicitamente chi Lui è, adesso sembra rimandarli a loro, perchè ascoltino la loro testimonianza: infatti le sue pecore conoscono Gesù e la sua voce, e le opere che con loro Gesù ha compito gli rendono tetimonianza. Sembra di vedere in controluce, la memoria della pretesa, ugualmente superba e insidiosa, con cui Erode si rivolgeva ai magi: “Dopo avere trovato il bambino, venite a dirlo a me!”. E invece la via che Gesù indica ai suoi interlocutori (e a noi con loro) sembra oggi essere quella di ascoltare con umiltà la lieta testimonianza dei fratelli che mostrano e raccontano l’opera del Figlio di Dio in loro, a gloria di Dio.
La festa della Dedicazione (chiamata anche festa delle luci) ricorre normalmente in dicembre; se l’autore ha voluto precisare che “era inverno”, vuol suggerirci qualcosa: nel Cantico dei cantici, l’inverno è descritto come tempo di freddo, di morte… Il nostro testo precisa che Gesù si trovava “nel portico di Salomone”, cioè il luogo dove gli scribi insegnavano la Legge. Non sarà questo il “luogo” della privazione di vita, e causa di morte? – Al v. 27, Gesù ripete, parlando delle sue pecore, “io le conosco”: come sappiamo, conoscere vuol dire, nel linguaggio biblico, avere esperienza di intimità, simile a quella dello sposo e della sposa. Dunque, è così la nostra “conoscenza” del Signore… Quella stessa intimità che abbiamo visto ieri tra il Padre e il Figlio. Il v. 30 conclude dicendo: “Io e il Padre siamo uno”. “UNO” era un modo per indicare Dio, poiché il suo nome non poteva essere pronunciato. Quindi è come se Gesù dicesse: Io e il Padre siamo Dio (molto più di “una cosa sola”, come dice la traduzione italiana). E domani vedremo le conseguenze di questa affermazione.