33 Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. 34 Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, 35 né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37 Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno.
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Quello che nel testo precedente abbiamo ascoltato sul dono di comunione che abbiamo ricevuto, e su come questo dono renda divinamente preziosa ogni relazione, ci porta ora a considerare il volto divino che ogni realtà ha assunto dalla venuta tra noi del Figlio di Dio. Per questo, non abbiamo più bisogno di garanzie speciali che sostengano la verità e la sincerità della nostra persona e del nostro agire, perché, in Gesù, Dio si è reso presente in ogni frammento della creazione e della storia.
Il giuramento “impegna” un data realtà come garanzia della verità della vita, del comportamento e del parlare della persona che formula un giuramento. La mia eventuale inautenticità-insincerità denuncerebbe la mia incredulità circa il valore di realtà grandi, come il cielo, la terra, Gerusalemme e la mia stessa vita. Ma nonci sono più ambiti “speciali” di questa presenza, perché in Gesù tutto è diventato tempo e luogo della presenza divina. Non c’è più un “sacro” a garanzia del “profano”, perché tutto è stato “invaso” da Dio che in Gesù ha riempito di sé tutta la realtà.
Il fatto di non poter giurare neanche per la propria testa vuole dire che anche la mia povera persona è diventata luogo della presenza del Signore e della sua signoria su di me. Ormai ,quindi, la mia stessa parola è chiamata ad esprimere la sua presenza e la sua verità. Il giuramento è proprio di una situazione di “lontananza” di Dio dall’uomo. Ma ormai il Signore si è fatto prossimo a noi più di quanto noi lo siamo a noi stessi. Ecco perché tutto il “parlare” della nostra vita è chiamato ad essere semplicemente se stesso: perchè noi e Lui siamo del tutto uniti. Non siamo noi a parlare, ma è Lui che parla in noi.
Dio ti benedica. E tu benedicimi. Tuo. Giovanni.
Perché Gesù dice queste cose a proposito del giuramento? S. Paolo in 2Cor 1:17ss ci ricorda la necessità di fare tutto davanti a Dio, in obbedienza a Lui e al suo Cristo, nel quale non c’è stato il “si” e il “no”, ma in Lui ogni parole di Dio è divenuta “si”.
Le parole di oggi valorizzano anche il rito del rinnovo delle promesse battesimali, per le quali rinnoviamo il nostro “si” a Dio e il nostro “no” al diavolo e a tutte le sue cose.
Perché uno giura? E perché Gesù dice di non farlo? Perché giurare è sottolineare che uno che dice una parola umana ha bisogno di sentire che essa è avvalorata dal fatto che viene nominato anche il nome di Dio. E’ come se si volesse dare un grande valore alla parola dell’uomo, che invece non ha valore se non quando diventa parola di Dio.
Giurare è chiamare Dio a testimone che le nostre parole dette in quel momento sono vere. Questo presuppone quasi la necessità che “lo chiamiamo” affinché si faccia attento a noi, si interessi in quell’attimo di ciò che accade o diciamo. Gesù contestando la necessità di giurare (non solo di giurare il falso, comando già noto agli antichi) vuole anche dirci che Dio è sempre presente e attento a ogni attimo della nostra vita, in chiesa, a scuola, in ufficio, da soli, in compagnia di altri: tutta la nostra vita gli è nota e tutta la nostra vita dobbiamo viverla nella consapevolezza di questa sua vicinanza e del suo sguardo su di noi. Non è che c’è lì solo se e quando noi lo nominiamo o giuriamo – magari con leggerezza – nel Suo nome.
Gesù comanda di non giurare su cose, come se avessero valore per se stesse (il cielo, la terra, Gerusalemme): non c’è niente infatti che entrando in rapporto con il Signore non venga santificato. E così il cielo “è il trono di Dio”, la terra “lo sgabello dei suoi piedi” e Gerusalemme “la città del gran re”. E anche noi non apparteniamo a noi stessi, ma a Dio, in quanto non abbiamo nessun potere neppure su uno dei nostri capelli. E tutto quello che viene in contato con Dio viene santificato e diventa suo, anche “i sonagli dei cavalli” sui quali sarà scritto nel giorno della sua venuta, “sacro al Signore” (Zac 14:20).
Gesù dunque ci mostra che non possiamo pretendere che il cielo, la terra, Gerusalemme, siano cose nostre; e neppure noi stessi, la nostra persona, ci appartiene. Il diavolo aveva tentato Gesù ad appropriarsi di una potenza in proprio: “Dì che queste pietre diventino pane!”.
“Si,si; no, no” prima di tutto sono parole di Gesù stesso. E’ una parola che non confida in un potere umano; è una parola di fede, ed è una parola di cristiani/testimoni/martiri.
Ed è una parola di quelli che all’inizio del suo discorso Gesù ha proclamato beati.
v. 36 “Non potete fare bianco o nero un solo capello”. Ieri abbiamo ascoltato che chi ripudia la propria moglie “la fa adultera”. dunque abbiamo potere di “fare” qualcosa. L’invito che riceviamo da questa parola è che l’opera che facciamo va fatta secondo il comando ricevuto; fare di più non è opportuno: “il di più viene dal maligno”. E se la nostra giustizia deve superare quella degli scribi e dei farisei, questo vuole proprio dire “avere uno sguardo misericordioso verso gli altri”, ma non aggiungere qualcosa, qualche opera o parola solo nostra. Bisogna dire una parola che cerchi di avere lo sguardo di Dio, e non aggiungere nulla perché altrimenti causiamo male (possiamo fare un altro essere adultero, o ucciderlo).